Poco meno di tre anni fa, quando già la stella dell’istrione di Arcore era tristamente avviata al tramonto, ma nessuno poteva immaginare quale nuovo astro avrebbe illuminato la scena del Teatro Italia, in un articolo pubblicato dalla Voce del Ribelle, di Massimo Fini, mi arrischiai a fare una previsione, una fosca previsione che si sta a mano a mano avverando.

A quei tempi, al Teatro Italia, era in cartellone la pochade, una versione postmoderna de “L’Hotel du libre échange” di Feydeau, che però, giunti ormai all’ennesima replica, rivelava ai palati più fini il retrogusto amaro della tragedia, affiorante dalla vernice scrostata di un logoro copione tra le righe del quale già si intravvedevano i toni cupi del prossimo cambio di scena.

Alle tresche del vecchio ganimede già si sovrapponeva l’immagine del sovrano deposto e dei suoi conti palatini, ormai sciolti da ogni vincolo di fedeltà, che si accapigliano per dividersi le sue spoglie, mentre all’orizzonte si profila minacciosa la nave di un novello Tito Andronico, il nuovo padrone al quale, abbandonata la lizza laceri e contusi, avrebbero giurato obbedienza.

Ciò che non si poteva assolutamente prevedere, invece, era il fatto che il cambio di scena sarebbe stato così repentino: niente interludio, deposte le loro maschere, i comici hanno abbandonato il proscenio e subito i coturni dei tragici hanno preso a calcare le polverose tavole del palco.

E, cosa ancor più imprevedibile, sia il pubblico che la critica, ormai sazi di pochade, cominciano ad applaudire a scena aperta senza attendere neanche la prima battuta. La compagnia è prestigiosa, il capocomico un grande istrione, reduce, si favoleggia, da successi internazionali.

E ad applaudire non sono solo i privilegiati, quelli che siedono nelle poltrone delle prime file, ma anche quelli che si apprestano ad assistere allo spettacolo seduti su scomode panche o addirittura in piedi. “Una grande compagnia e un grande testo, col quale ci rifaremo la bocca, dopo aver assistito a fiacche stagioni, a innumerevoli esibizioni si squallidi guitti” così pensa il folto pubblico che si assiepa speranzoso attorno al proscenio.

Ma noi, che non siamo di bocca buona e soprattutto non ci fidiamo delle fanfare della propaganda, non solo vogliamo aspettare sino all’ultima battuta prima di concedere il nostro applauso, ma abbiamo voluto subito vederci più chiaro sulla composizione di questa compagnia e soprattutto sul capocomico e sulle sue precedenti rappresentazioni.

Il suo cavallo di battaglia è il “Bilderberg”, un testo di autore olandese della metà del novecento, che viene rappresentato solo una volta all’anno, sempre in un paese diverso, e alla cui messa in scena può assistere solo un piccolo gruppo di invitati. Niente pubblico pagante, niente critici in sala, e soprattutto un copione su cui tanto si favoleggia ma nessuno conosce.
Celeberrimo anche il “Goldman Sachs” in cartellone a New York dal 1869 e portato in tournée in tutti i paesi del mondo ma, anche in questo caso, rappresentazioni ad invito, senza pubblico pagante e senza critici in sala.
Insomma, più che a un capocomico questo signore mi fa pensare al capo di una setta esoterica, depositaria di innominabili segreti che non possono essere divulgati, al custode di un vaso di Pandora la cui improvvisa apertura rivelerebbe tutti i mali del mondo. http://www.libreidee.org/2011/08/paolo-barnard-il-vero-potere-mondiale-ci-vuole-schiavi/

A pochi mesi dal debutto, spenti i clamori della prima, si susseguono con sempre minore successo le repliche di uno spettacolo desolante, i cui interpreti si esibiscono rivolgendo ostentatamente le spalle alla platea e, ad ognuna di esse,  il prezzo del biglietto lievita.

Tra un pubblico attonito, cominciano a manifestarsi i segnali di un serpeggiante malumore, cominciano a udirsi i primi fischi, le prime grida di protesta che la claque non riesce più a sovrastare. Credo che presto si arriverà al lancio di ortaggi e poi le poltrone della sala verranno schiodate dal pavimento e scagliate contro il palcoscenico.

Ma la maggior parte dei critici pare non accorgersi di nulla e continua a dedicare le sue attenzioni alla recitazione, ai costumi, alle luci, all’apparato scenotecnico, per lodarli o per proporre modifiche, come se soltanto da essi dipendesse il buon risultato dello spettacolo, distogliendo e facendo distogliere l’attenzione dal truce copione, nel quale è scritto che agli spettatori, come l’Antonio shakespeariano, verrà alla fine chiesto di pagare il prezzo del biglietto con una libbra della loro carne.

Federico Bernardini

Illustrazione: Copertina del “Tito Andronico” edizione del 1594, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Shakespeare_Titus_Andronicus_Q1_1594.jpg