Di Sonia Maioli Si dice che il corpo sia veicolo della nostra anima immortale, o della scintilla del Divino che in esso si cela.
Siamo destinati al decadimento, fatale e fisiologico.
Qualcuno ha detto che la nostra anima, alla fine della vita del corpo, sia paragonabile a un motore di grossa cilindrata costretto su una vettura scalcinata, arrugginita e da gettare. Quindi, venga la fine, per permettere una reincarnazione in più adeguato mezzo di trasporto.
Si piange alla nascita, mentre tutti ridono e festeggiano.
Si potrebbe ridere alla nostra morte mentre molti piangono?
Interrogativo che rimbalzava nella mia mente la notte scorsa.
Pronto soccorso, molta gente, moltissimi anziani.
Eccezione, una collega giovane con una frattura.
Mi sono trovata in compagnia di alcune donne, che si alternavano, cambiavano posto sulle loro barelle.
A un certo punto, cominciavo a stare meglio, mi è scappata una risatina, l’infermiera mi ha guardato con aria dubbiosa e interrogativa.
Mi ero semplicemente accorta che i miei sessantuno anni abbassavano notevolmente la media dell’età delle pazienti.
Mi sono chiesta a lungo, nei momenti di lucidità di pensiero, perché siamo destinati a divenire vecchi.
La fragilità, l’essere indifesi, non autosufficienti, sono qualità che contraddistinguono le età estreme della nostra esistenza.
Ma, se nel neonato suscitano tenerezza, istinto di protezione, dolcezza, sembrano motivo di intolleranza, fastidio e, a volte, repulsa quando si presentano nell’anziano.
Cosa vuole suggerire la natura?
Che la vita al suo inizio va protetta da ogni insidia?
Che il termine del cammino sia fastidioso e quindi da accelerare?
Le mie compagne per una notte erano variegate per età, per ceto, per patologia.
E’ stato solo stamani, intorno alle quattro, che ho osservato la signora del primo letto in fondo.
Tutte, indistintamente, per tutta la notte, hanno lamentato e manifestato il loro malessere.
Solo lei, accartocciata sulla scomoda barella, indossando una bella vestaglia viola e lilla, aveva taciuto tutta la notte.
Sicuramente era quella che soffriva di più, tanto da non aver nemmeno la forza di lamentarsi almeno un po’.
C’era una donna dall’aspetto che forse non era mai stato bello, sembrava mite, pronta ad ubbidire ai comandi, porti con dolcezza dalle persone che di noi si occupavano con attenzione e rispetto. Eppure era restia e ritrosa a sottoporsi alle cure, preoccupata che le stesse potessero essere peggiori del male, cercando di proteggere quella che a lei sembrava la migliore forma di salute.
Un’altra che non sapeva da quando, perché fosse lì. Continuava ad alzarsi, a cercare vie di fuga. Piccola, minuta, ma con una forza inaspettata. Tre infermiere non riuscivano a tenerla ferma. C’è voluto l’intervento di un medico Maschio che, con finta durezza, l’ha minacciata di sottoporla a sedazione.
Non credo abbia capito, ma è bastato il tono a placarla e farla scivolare in un sonno profondo.
Ho incontrato anche una vecchia conoscenza, una povera donna conosciuta quando lavoravo in un consultorio. Sempre convinta di essere incinta, veniva a chiedere chi di noi ostetriche l’avrebbe accompagnata nella sua gravidanza, chi di noi avrebbe assistito al parto, ovviamente a domicilio, accogliendo lei e l’immaginario piccinino.
Mi domando perché la Natura permetta che si perda quella condizione socialmente accettabile che tanta fatica ci è costata.
Non so se sperare di arrivare integra alla meta o perdere pezzetti di consapevolezza e lasciarmi finalmente andare alla mia natura che, ho scoperto, essere ribelle e refrattaria a molte cose.
So che non mi sarà dato di decidere, il mio cammino sarà, come quello di tutti gli esseri, umani e no, sconosciuto e impervio.
Sono umana.

26 gennaio 2015

Illustrazione tratta da Google immagini