Il mio saluto
28 giovedì Feb 2013
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in28 giovedì Feb 2013
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in26 martedì Feb 2013
Posted Costume e Società, Politica, Storia
inLa mia prima riflessione, a bocce ferme, è la stessa che feci nel momento in cui decisi di non recarmi alle urne: “Per l’Italia, almeno in tempi storici, non c’è niente da fare”. Un po’ a causa dei nostri vizi, che ci impediscono di esprimere una classe politica in grado di salvare l’onore nazionale, un po’ a causa della mancanza di uomini retti su cui poter fare affidamento, ma soprattutto perché ormai le sorti delle nazioni, sempre più semplici espressioni geografiche e non organismi in grado di autodeterminarsi, vengono decise da un ristretto gruppo di potere sovranazionale, che dopo aver a lungo tramato nell’ombra è ormai uscito allo scoperto, rivelandosi al mondo come il nuovo Leviatano.
L’Italia, come il resto dell’Occidente, è l’espressione di una civiltà al tramonto, quella degli stati nazionali, che alla fine del medioevo si affrancarono dai due poteri universali in perenne lotta fra loro, quello imperiale e quello papale, per diventare entità autonome a loro volta in perenne lotta tra loro per affermare la supremazia l’uno sull’altro
Alla luce di questa considerazione poco conta, in fondo, quale sia stato l’esito delle elezioni di cui abbiamo appena conosciuto i risultati. Analizzarlo ha il sapore di un vacuo esercizio accademico. E’ come riflettere sulle regole di un gioco puerile mentre i “Grandi”, nel chiuso delle loro stanze di potere, sono intenti a fare la Storia, indifferenti alle sorti dei piccoli, che si illudono di essere protagonisti pronunciando la formula: “Facciamo che io ero… facciamo che io dicevo… facciamo che io facevo”.
E allora facciamo finta per un momento che quello delle elezioni non sia stato un gioco puerile, ma un momento solenne, destinato a determinare le sorti del nostro Paese.
Tutti gli analisti concordano su un punto, i risultai elettorali fanno dell’Italia un paese ingovernabile. La coalizione di maggioranza controlla la Camera, ma al Senato è impossibile formare una maggioranza omogenea. Perché?
Al centro-sinistra mancano decine di seggi per raggiungere una sicura maggioranza assoluta. Il progetto di Bersani, figura del tutto priva di carisma, lontana anni luce da quella dello statista di cui l’Italia avrebbe oggi avuto bisogno, è stato vanificato dal deludente risultato ottenuto dalla sua coalizione e contemporaneamente da quello del raggruppamento che fa capo al senatore Monti. Il sogno di Bersani a Palazzo Chigi e di Monti al Quirinale è irrimediabilmente svanito. Non un gran male, dal mio punto di vista, perché tale soluzione, in linea con le mire del governo uscente, non avrebbe fatto altro che accelerare la consegna del nostro Paese nelle mani dei faccendieri e degli speculatori che si stanno spartendo il mondo come facevano un tempo i pirati col bottino dei galeoni arrembati.
Rimangono allora tre soluzioni, a mio giudizio l’una più impraticabile e deleteria dell’altra.
La “Grande Coalizione” una sorta di “Comitato di Salute Pubblica” che metta insieme Bersani e Berlusconi in un amplesso contro natura, teso unicamente a perpetuare l’oscena pratica del compromesso trasformistico ad esclusivo vantaggio di una classe politica marcia, relitto dei naufragi di prime e seconde infauste repubbliche.
Bersani, a stento uscito vivo dalle urne, sa benissimo che ciò rappresenterebbe per lui un suicidio politico, ma Berlusconi, il politico dalle sette vite, l’imbonitore, il venditore di illusioni porta a porta, preme per questa soluzione, alla ricerca di consolidare il suo ennesimo trionfo di gabbamondo, magari piazzando il suo deretano sul più alto scranno di Palazzo Madama, dal quale poter fronteggiare le mute di “Toghe Rosse” che gli mordono i calcagni.
“Scendere a patti con Grillo”. Una tentazione dalla quale, vista l’impasse in cui si trova, Bersani potrebbe non essere immune. La nutrita schiera dei senatori grillini, che si presenta più come un coacervo di individualità eterogenee che come una compagine omogenea, rappresenta un mistero che il disperato caporione del centro-sinistra potrebbe tentare di sondare.
Per Grillo, ovviamente, neanche a parlarne, ma chi ci dice che egli sia in grado di controllare la sua creatura. Potrebbe sfuggirgli dalle mani, autodistruggersi, così come avvenne all’Uomo Qualunque di Giannini, frammentarsi, cedere alle profferte del migliore offerente. Nessuno può saperlo.
La terza ipotesi, quella che appare più ragionevole, è quella del “Governo Minoritario di Programma”. Ed è in questa direzione che Bersani cercherà probabilmente di muovere i primi passi, nel tentativo di coagulare di volta in volta un’occasionale maggioranza intorno a singoli provvedimenti. Come dire, insomma, uno spavento senza fine… o una fine spaventosa.
E le Stelle, intanto, non stanno a guardare.
Federico Bernardini
Illustrazione: “L’Italia in Croce” (Gaetano Pesce), fonte: http://designandstyle.blogosfere.it/2011/06/gaetano-pesce-e-il-simbolo-del-padiglione-italia-alla-biennale-darte-di-venezia.html
23 sabato Feb 2013
Posted Racconti
inNe sentiva il galoppo da lontano, ormai l’avrebbe distinto tra mille cavalli; era il “suo” cavallo, un purosangue inglese, sauro, bello da togliere il fiato nella maestosità e nel vigore dei suoi quasi otto anni.
“Suo”, sì, lo sentiva suo; lo aveva sentito suo appena gli era andato vicino e ne aveva sentito il calore, lì, nel maneggio del Signor Conte.
Era il cavallo della Contessina Delia, la bellissima e sprezzante figlia del Conte, ma lui, sì, lui, proprio lui, Davide, lo stalliere al servizio del Conte, ne era il vero “proprietario”, perché lui lo aveva allevato, accudito, curato, domato, e montato.
Era proprietà della Contessina, ma era lui, Davide, che lo conosceva, che capiva quando il cavallo aveva fame o sete, o stava bene o male; era lui, Davide, che lo lisciava, lo coccolava, lo preparava per l’uscita o per la notte; era lui, Davide, sì, proprio lui, il servo, che cavalcava il purosangue per allenarlo e tenerlo in forma ed era sempre lui che sapeva come trattarlo e come amarlo.
Si chiamava Ares e quando lo chiamava gli sembrava di pronunciare una parola magica.
Il Conte aveva fatto costruire vicino alla villa una sorta di dependance, con due stanze d’abitazione per lo stalliere; attigua al piccolo appartamento c’era la bella stalla con i box per i cavalli e, affianco, il maneggio.
Davide viveva lì, più nella stalla che nelle stanze; non gli dispiaceva la solitudine e poi con i cavalli, quello del Conte, quello della Contessa e il giovane purosangue, la solitudine non esisteva.
Era molto grato al Conte, che lo trattava con signorile cortesia, paterno quasi, e lo aveva accolto al suo servizio strappandolo al destino di servo pastore, alle dipendenze di un padrone cui nulla doveva se non rimproveri e cattiverie; era stata una liberazione, per il giovane Davide, lasciare quello stazzo dove aveva vissuto e stretto i denti da quando, ancora quasi bambino, aveva dovuto badare a se stesso e lasciare la misera casa paterna.
Ora, al servizio del Conte, tutto era bello e felice; i cavalli erano stati sempre la sua passione, cavalcava da quando era bambino e ne conosceva tutti i segreti; passava il tempo a curare i cavalli del Conte in maniera quasi maniacale, in quella bella stalla che teneva sempre pulita e che sapeva di fresco e profumava di biada e paglia.
Talvolta, la sera, si recava in paese, poche ore, giusto per vedere i suoi o giocare con qualche bella amica compiacente; ma aveva sempre fretta di rientrare e stare fra le sue cose, i cavalli, gli attrezzi, i suoi piccoli lavori.
Spesso il Conte gli chiedeva di recarsi in villa per dare una mano al vecchio domestico in qualche lavoro pesante, o semplicemente per prendere un the; e in quelle occasioni Davide respirava l’aria pulita dell’eleganza e dell’agiatezza.
La signora Contessa lo trattava con amorevole affabilità, e spesso il Conte gli offriva uno dei suoi pregiati sigari.
La Contessina non partecipava quasi mai, spesso era rinchiusa nella sua camera o, più spesso, vagava in solitudine nel vasto parco, sempre con la sua aria imbronciata e altezzosa.
L’aveva vista per la prima volta al maneggio, pochi minuti, e poi nel salotto della villa, bella da far paura, dritta e fiera nel suo atteggiamento di superbia. Sapeva di essere bella, eccome se lo sapeva, bella in tutta l’esuberanza della sua piena femminilità.
Doveva avere circa trentacinque anni, e spesso il Conte si era lamentato di questa figlia poco intenzionata a maritarsi, che rifiutava, scontrosa, corteggiatori e richieste.
Delia sapeva anche di piacere, e molto, a quel giovane servo che il padre aveva raccattato in qualche campagna; giovane, sì, forse meno di trent’anni, e si divertiva a fissarlo negli occhi con aria provocatoria, godendo del fremito di lui a stento contenuto. Ma non riusciva a fargli abbassare lo sguardo e allora si allontanava rabbiosa, passandogli accanto per fargli sentire il suo profumo.
Non perdeva l’occasione per umiliarlo, o rimproverarlo per mancanze inesistenti e lo guardava con aria di sfida, con i suoi occhi metallici.
Arrivava alla stalla e lo chiamava sbraitando, reclamando il suo cavallo; di solito indossava la tenuta da cavallerizza, con i calzoni aderentissimi, e scarpette normali. Teneva gli stivali nella stalla e li indossava solo per cavalcare.
Si faceva aiutare dallo stalliere; lo stivale – diceva – era troppo stretto, e a lei non veniva bene infilarci la gamba.
Poi, senza dire altro, si sedeva su una panca vicina al mucchio di fieno e allungava le gambe; bastava questo a far capire allo stalliere cosa aspettava.
Davide, al suo cenno autoritario, sentiva un brivido correre lungo la schiena, non sapeva se era rabbia o piacere; si chinava verso i piedi della donna per toglierle la scarpa e liberava il piedino, incredibilmente minuto, grazioso e morbido, in contrasto col resto del corpo rigido e fiero pur nella sua minuta gracilità.
Attraverso la leggera calza sentiva il calore della pelle levigata e ne aspirava il tenue profumo; poi, con religiosa attenzione, guidava il piedino all’interno dello stivale, stendendo la calzatura sino al ginocchio e allacciando bene il gambale sopra il polpaccio.
Era un rito, ormai, e Davide si attardava meticolosamente, lisciando il cuoio lucidissimo degli stivali, incurante dell’impazienza della Contessina.
“Gli stivali devono essere ben stretti e tesi, non devono infastidire Ares!”
“Basta con queste attenzioni esasperanti!” La voce della Contessina era tesa e irritata “non posso stare tanto tempo qui, in questa stalla puzzolente!”
“ Contessina, la stalla profuma solo di buono…”.
Davide ormai si adagiava su quel tono aspro, provando quasi un piacere animalesco, e si lasciava cullare da quella voce decisa e imperiosa di donna altezzosa e fiera; spesso, non visto, la osservava e ne coglieva il velo di tristezza che la avvolgeva quando, sapendo di essere sola, vagava nel parco, morbida e assente.
Era una brava cavallerizza, sapeva come condurre Ares, anche se spesso lo affaticava troppo, e Davide la invitava a essere meno esigente col giovane purosangue, ricevendone sempre commenti sgarbati e sguardi severi.
La guardava cavalcare con la leggerezza di una farfalla, sino a che scompariva tra gli alberi della foresta, e sentiva una sorta di sofferenza nel corpo di lei che fluttuava sul dorso del cavallo, assecondandone le movenze; spesso cavalcava a pelo, in perfetta sintonia con l’animale, abbandonata a un languore malinconico.
Al rientro dalla cavalcata, Davide si occupava di Ares, ricoverandolo frettolosamente nel box dopo una rapida rinfrescata, e subito doveva togliere gli stivali alla donna che aspettava, nervosa, seduta sulla panca.
Talora la Contessina indossava una lunga e ampia gonna e Davide affrettava il rito degli stivali, stordito dal profumo alla lavanda delle vesti e indovinando una punta di irrequietezza in quelle gambe avvolte dal sottile velo della calza.
Quando la donna si avviava alla villa, Davide non sapeva se ne era felice o nostalgico, ma era libero di dedicarsi ad Ares, che dopo la corsa aveva bisogno di cure: puliva gli zoccoli, lo asciugava con la spugna e poi spazzolava con cura, minuziosamente, coda e criniera, prima di passare su tutto il corpo il panno col lucidante.
Anche quel pomeriggio la Contessina era venuta al maneggio, pretendendo, con la sua voce dura, il cavallo.
Davide strinse i pugni per contrastare il fremito che lo prendeva al suono della voce perentoria della donna; andò nel box per prendere Ares e lo tenne vicino per sellarlo ma la Contessina lo fermò:
“No, niente sella, oggi cavalco a pelo; niente staffe, aiutami a montarlo!”
Era capitato altre volte, e il ragazzo intrecciò le dita delle mani affinché la donna potesse mettervi il piede e issarsi sul cavallo, tenendosi in equilibrio aggrappata con le braccia al collo di lui.
La donna si attardò nel gesto, la mano sulla calda pelle dello stalliere, sino a che la lunga gonna avvolse la groppa come un manto e il profumo dei lunghi capelli della donna si mischiò al profumo del vento.
Davide ne fu stordito e guardò la Contessina che lanciò subito il cavallo al galoppo, il frustino in mano; il ragazzo sapeva che non lo avrebbe mai usato sulla pelle dell’animale, ma al suo sibilare nell’aria, sentì una dolorosa fitta e un brivido di piacere.
Il temporale era arrivato all’improvviso, e Davide l’aveva sentito dalla stalla; era corso fuori e subito aveva pensato ad Ares sotto il diluvio. Ne sentiva il galoppo, ancora lontano, ma al suo orecchio attento non era sfuggito che qualcosa non andava, c’era un non so che di ritmo sfalsato e non armonioso; il suo Ares era la perfezione, qualcosa lo disturbava, e pioveva molto, lampi e tuoni scuotevano l’aria.
Aspettò sull’uscio di vederlo rientrare, ormai il battere degli zoccoli al galoppo era vicino, e poi li vide, Ares e la Contessina erano un unico corpo quasi impazzito.
Il ragazzo strinse i pugni, il cavallo zoppicava e correva furioso e disperato, ma perché la Contessina non lo frenava?
La rabbia arrivò come uno scudiscio in pieno viso, rabbia, odio e voglia di distruggere quella donna che lo faceva sussultare con quegli occhi taglienti.
Appena furono vicini, Davide afferrò le redini di Ares ancora scalpitante e con decisione lo riportò al passo.
Il cavallo era fradicio di pioggia, tremava, forse era stato spaventato dai tuoni, e la donna aveva perso il controllo, da cui la lunga corsa al galoppo.
Prese la donna per la vita e bruscamente la fece sbalzare dalla groppa, mettendola in terra. Doveva accudire il purosangue, si poteva ammalare, e ancora tremava tutto.
Lo guidò verso la stalla, corse a prendere spugne e coperte per asciugarlo, lo accarezzava, gli parlava dolcemente, mentre la donna, arrivata a stento nella stalla, si era sdraiata sulla solita panca:
“Lascia stare il cavallo, lo vedi che sono grondante, vieni qua a togliermi gli stivali!”
“No, ora no!” Davide si stupì della sua audacia ma la rabbia era tanta, “ora devo calmare lui”.
“Come osi? Vieni qua immediatamente!” Fece sibilare il frustino che aveva ancora in mano… “sei solo un servo!”
“Oso, oso…” La tensione accumulata dal ragazzo non aveva più argini. “Oso perché il cavallo è “mio” e non devi gettarlo allo sbaraglio nella foresta, al galoppo e non devi innervosirlo, è stanco e spaventato, allo scoppiare del temporale dovevi fermarti trovando un riparo e poi calmarlo, senza lanciarlo all’impazzata”.
“Ma insomma!…”
Davide non l’ascoltava più, aveva dato persino del tu alla Contessina, avrebbe pagato caro quel comportamento, lei sicuramente avrebbe riferito al padre, lo avrebbero scacciato… sarebbe stato di nuovo un servo pastore, e anche adesso era un servo… ma nulla importava, importava solo Ares ; ormai era asciutto ma ancora lo accarezzava col panno e con la mano, gli parlava con dolcezza e pian piano il cavallo si calmava, non tremava più, e il ragazzo continuava a lisciare la lunga criniera con devozione.
Sentì una sorta di lamento ovattato, quando sollevò lo sguardo la vide, e trasalì: dritta e fiera sugli stivali bagnati, i lunghi capelli ancora grondanti, e gli occhi azzurri e metallici, la lunga veste abbandonata sulle gambe, e il frustino in mano.
La vide muoversi per avvicinarsi ed ebbe paura, una paura eccitante che gli toglieva il fiato; e accarezzò ancora, febbrilmente, la criniera di Ares.
Lei gli venne vicino lentamente, spavalda e decisa, quando si accostò i suoi occhi erano di fuoco, ma la mano che prese la sua era morbida e dolce.
“Sono bagnata anch’io…”
La voce aveva il sapore della pioggia, e guidò la mano di lui sui capelli umidi.
La sua gonna era una nuvola quando lei si scostò e si stese sul mucchio di fieno; il frustino era animato e la voce perentoria: “Vieni qua, toglimi gli stivali e asciugami!”
Un brivido, e Davide si inginocchiò ai suoi piedi e tra le sue vesti.
Lis 2013
Illustrazioni tratte da Google immagini
23 sabato Feb 2013
Posted Storie
inTra le rocce vulcaniche di Pointe Aux Piments, c’è una “poltrona” di pietra nera, che tutti conoscono come “le fauteuil d’Alberto”.
Al tramonto, se qualcuno mi cerca, è inutile chiamarmi sul “portable”, non rispondo, perché sono seduto in poltrona davanti all’Oceano. E’ un momento magico… e terapeutico.
Magico perché i tramonti sull’Oceano sono quasi un passaggio mistico, una carezza interiore che dura almeno quanto il tramonto.
Terapeutico perché la “stones therapy” è una realtà riconosciuta e tanto più efficace quanto più le rocce sono vulcaniche. Ci si appoggia la schiena, nel momento in cui hanno immagazzinato il massimo del loro calore, quindi, proprio al tramonto, i doloretti da artrosi vengono cancellati.
Vado sulla mia “poltrona” sempre con un libro. E’ solo un alibi, perché con il sole in faccia è praticamente impossibile leggere. Ma non voglio spiegare a tutti che ci vado per vedere quello spettacolo che, in fondo, è solo mio. Le orecchie sono avvolte da “tappi” che emettono musica.
Non importa se sia Chopin o Jesus and Mary Chains, la musica mi toglie tutto quello che è estraneo allo spettacolo visivo che si trasforma attimo per attimo e ogni giorno cambia copione.
Il primo a scoprire questo mio “rifugio” in riva all’Oceano, è stato un bambino di sei anni.
Facevo finta di leggere, guardavo il mare ed i riflessi del sole che saltava tra le rotondità delle nuvole prima di friggersi definitivamente al contatto con l’Oceano. Le orecchie ostinatamente tappate da musica (all’epoca c’erano gli enormi walk-man con cassette).
Non mi sono accorto dell’arrivo del piccolo che mi è letteralmente salito sul collo da dietro la “spalliera” della “poltrona”.
”Heilà! Chi sei?” “Nicholas” mi dice lui. “Stai bene là sopra?” “Benissimo!” “Pensi di restare a lungo?” “Fino al tramonto”.
”Mi scusi, mi scusi tanto!” s’affretta a dirmi subito una bella signora, che nel frattempo si era avvicinata alla mia poltrona sull’Oceano, “Il mio piccolo vi vede tutti i giorni e s’è affezionato a voi”. “Eh!” dico io “credo proprio di sì, perché ha scelto un posto comodo per osservare il tramonto”.
Marie Claire, è il nome della madre di Nicholas, m’ha raccontato una lunga storia, comprensiva di tutte le sfortune della sua vita (4 mariti) e le fortune (9 figli). M’ha detto che era l’ultimo giorno di vacanza per l’ultimo nato, Nicholas, perché “Domani comincia la scuola e il piccolo teme che poi non potrà più incontrarvi. Ecco perché ha fatto quello che io stessa non m’aspettavo!”
Abbiamo atteso il tramonto tutti e tre.
Oggi Nicholas è un ragazzo di 18 anni. Frequenta la scuola superiore. Sono trascorsi tanti anni, ma non ha mai dimenticato Alberto e capita spesso che passi ancora a salutarmi, non a casa mia, ma, al tramonto, sulla mia poltrona di roccia nera davanti all’Oceano. E mi chiede:
“HeyAlby! Come si presenta lo spettacolo oggi?” “Splendido!” rispondo io.
Che cosa e cambiato?
Niente. No…ora ci sono gli MP3,4,5…tanta musica in poco spazio. Ma il tramonto sull’Oceano è sempre uno spettacolo che viene replicato diversamente ogni giorno, Almeno, quando il sole c’e!
Nicholas, non mi salta più sopra il collo, ma spesso, anche lui, proprio come anni fa, si prepara al momento magico del sole “Qui… frire”.
Alberto Nacci
20 mercoledì Feb 2013
Posted Poesia
inNon lasciarmi indietro, amore mio,
portami con te nel grigiore del giorno,
nei meandri oscuri della malinconia,
tra i fantasmi ombrosi dell’ansia.
Davanti a noi
fiumi di lava rovente:
io t’insegnerò a nuotare…
…ponti sospesi nell’aria…
io ti darò le mie ali,
foreste intricate e pungenti,
io ti porterò in braccio.
Non sarai solo, amore mio,
nell’intricata e oscura magia
della tristezza,
ogni giorno
implorerò il sole perché splenda,
pregherò la malinconia di cantare
e i fantasmi di danzare con le stelle.
Non sarai mai solo amore mio.
Amore.
Da cardiopalmo e stordimento …
il nome segreto di Roma,
sono ancora incantata
dal suo fascino estremo.
Può un nome tanto bello
fare tanto male?
un male viscerale,
che rallenta il respiro e
annebbia la vista?
Io non gli ho mai fatto torto,
l’ho solo ignorato
perché mi fa paura…
ho paura per me e per lui, che
prima o poi finirà nel fango.
Povero “amore” mio!
Io ti proteggerò dalla fanghiglia…
sarai libero solamente nei miei sogni
e nella poesia.
Illustrazioni tratte da Google immagini
19 martedì Feb 2013
Posted Poesia
inQuante spiagge bagnate dal mare,
quante onde riverse su sponde,
quante labbra sfioranti le tue
quante bocche assetate alla fonte?
Quanti venti scuotere il prato,
e perversi divellere il fiore!
Quante mani indugiar sul tuo viso,
e innocenti giocare col sole…..
Quanto amore da dare
e baci da cogliere,
bocche da dischiudere
e schiave disciogliere dai veli ….
Quante?
Tante…
quante le spiagge bagnate dal mare!
SOLDATO
Cosa porti, soldato,
nel tuo zaino strappato,
oltre al tuono del rombo,
al sapore del piombo,
al bagliore di un lampo?
Cosa porti, ragazzo,
nel tuo zaino pesante,
oltre al guizzo di fiamma,
al gelo dell’amba,
alla mina che brilla
e divampa nel grido “All’assalto!”?
Cosa porti, fratello,
nel tuo zaino squarciato,
oltre al duro fardello di fame e di morte
e fragore di ferro,
oltre al sordo ricordo
di campi cosparsi di sangue e di carni?
Cosa porti, fratello,
oltre al soffocato silenzio del pianto?
Nient’altro, sorella, nient’altro!
Illustrazioni tratte da Google immagini
19 martedì Feb 2013
Posted Costume e Società, Musica, Storie
inStava per finire il secondo millennio.
Sicuramente ero entrato nella fase di studio, sempre più incuriosito e catturato dalla vita mauriziana. Ma sono diffidente più di quanto non lo sia stata mia madre e non mi lascio acchiappare dalle apparenze. Il mio “fidanzamento” con Mauritius è durato otto anni.
Nei primi tre (gli ultimi del 1900) non avevo ancora messo in atto “la metodica alternanza”: due mesi di tossico a Milano e due di disintossico Sull’Oceano. Ma, appena era possibile, anche una sola settimana, mi prenotavo un volo con l’Air Europe e la camera al “Villas Mon Plaisir”.
Non è il nome di una squallida casa di piacere tipo Via Vitruvio, ma uno splendido, piccolo albergo, dove la singola, in mezza pensione, costa come la permanenza di una sola ora al Valtur, e dove la qualità dei servizi è allo stesso livello di quelli offerti dal T.O. italico. L’unico problema era ed è ancora oggi quello di trovare posto, perché il “Villas” è sempre pieno. Non conosce la bassa stagione.
L’albergo è situato a Pointe Aux Piments. All’epoca, era insospettabile che nel 2005 avrei preso la residenza in quest’isola e proprio in questa località, che mi rinnova tutti i giorni la gioia d’essere vivo.
L’albergo ha una piccola spiaggia, non è mozzafiato, come tante altre dell’isola, ma è ben attrezzata e ricca di una -zona ombra- fitta di filaos, i pini mauriziani.
Gli indigeni sono festaioli e con quattro religioni ufficiali (Indù, Cattolica, Musulmana e Buddista) ogni settimana c’è una festa, quindi “bisboccia” tra i filaos. Fare una passeggiata nei giorni di “bisboccia” significa provocare continui inviti ad unirsi ai grandi barbecues ed alle ancor più grandi bevute. Il tutto, purtroppo, rovinato da musica a manetta di jumbo stereo, mah…
Era il giorno dopo Pasqua, per noi è il canonico giorno delle gite fuori porta. Qui è solo una festa in più.
Avevo percorso solo una decina di metri tra i filaos e mi sono fermato ad ascoltare tre chitarre che suonavano con un buon affiatamento. Sono rimasto con le orecchie vicine alle chitarre ma ad una distanza insospettabile. Suonavano bene, ma c’era qualcosa di stonato. Semplice, le chitarre erano accordate male.
Non sono un musicista “patentato” ma la musica mi cattura ed ho imparato a divertirmi con alcuni strumenti senza aver mai studiato niente, solo occhi ed orecchie.
Ho atteso per comprendere se anche i chitarristi si sarebbero accorti delle colpose dissonanze, ma …
Mi sono avvicinato e subito il gruppo m’ha ingiunto d’ingurgitare uno spiedino con annesso annaffiamento ovviamente di rhum. Ho detto: “Dopo, ora datemi quella chitarra”. Ne ho indicato una a caso perché erano sicuramente scordate tutte e tre.
Nel più totale baccano orgiastico ho mantenuto la giusta concentrazione (ma sono bravo ad astrarmi) ed ho accordato perfettamente una, due, tre chitarre tutte sorprendentemente uguali.
Non solo i tre suonatori, ma tutta l’enorme cerchia di curiosi è rimasta come calamitata. Uno dei musici m’ha detto: “Se sai accordare così bene, sicuramente sai suonare, vogliamo sentirti!” Ho risposto con un sorriso che le orecchie sono un mezzo per ascoltare, ma per saper suonare ci vuole un allenamento che non avevo più e che comunque loro erano molto più bravi di me.
Niente da fare.
I Mauriziani sono gentili, ma terribilmente ostinati anche se sempre con maniere gentili.
M’è giunto un lampo.
Eric Clapton, sì proprio il massimo genio vivente della chitarra, che ho conosciuto a Milano all’epoca dell’innamoramento con la Del Santo, m’aveva insegnato un giro di blues che, sue testuali parole: “Con tre chitarre e quattro accordi ci vai avanti tutta una serata!”
Al tramonto eravamo come sul palco della Royal Albert Hall. Le mani (chissà quante) scandivano il ritmo e il trio, in un’alternanza perfetta tra solista ed accompagnamento, continuava ancora a girare su solo quattro accordi ma che uscivano sempre con armonie diverse
Ancora oggi trovo qualcuno che mi dice: “Sai… c’ero anch’io al CONCERTO DI PASQUA, tra i filaos di Loco, cosi si chiama quella spiaggia di Pointe Aux Piments!!!
Alberto Nacci
Illustrazione tratta da Google immagini
16 sabato Feb 2013
Posted Costume e Società, Storie
inLa nostra lingua, come quelle di tutto il mondo, è zeppa di parole dal doppio significato. Sulla possibilità d’equivoco, quindi di una diversa interpretazione di uno stesso termine, i rischi sono notevoli. In questo senso credo che un episodio tanto paradossale quanto autentico mi sia capitato all’aeroporto milanese di Malpensa.
Correva l’anno… corrono talmente gli anni che non lo ricordo più, sicuramente metà degli anni ’70. Eravamo in attesa di partire con un volo special per Istanbul. Si trattava di un viaggio promozionale (si chiamano “incentives”) offerto, da una prestigiosa società leader nel tessile italiano, ad un nutrito gruppo di sarti provenienti da tutta Italia.
I partecipanti all’incentive, avevano ricevuto un foglio-notizie con scritte tutte le dettagliate informazioni sul viaggio.
E’ importante fare una annotazione a proposito del … correva l’anno. Siamo negli anni dei primi voli charters italiani e quindi in una preliminare fase di presa di contatto tra viaggiatore ed ogni tipo di vettore non solo aereo.
Al paragrafo “bagaglio” del foglio-notizie c’era scritto testualmente: “Al fine di snellire le operazioni d’imbarco, consigliamo ai Signori Partecipanti al viaggio di compilare l’etichetta bagaglio, scrivendo chiaramente il proprio nome, cognome e indirizzo e di apporla sul proprio -collo- prima di giungere in aeroporto”.
Non saprei dire da dove provenisse quel sarto, alto circa un metro e sessanta e pressoché calvo. Lo notai subito al suo arrivo in aeroporto, perché s’aggirava nell’atrio con una giacchetta molto esotica, in tema con le mitiche eccitanti notti orientali promesse.
Ma l’elemento più curioso era sicuramente rappresentato dall’etichetta bagaglio attaccata sull’asola del collo della giacca. Tutto perfettamente leggibile perché in grande evidenza.
Quando “l’esotico” si è avvicinato al banco di registrazione per il “check –in”, nessuno ha notato quella piccola stravaganza, erano tempi in cui molti viaggiavano per la prima volta e, alla -partenza gruppi-, c’e sempre tale confusione che il personale aeroportuale non riesce, quasi mai, a staccare gli occhi dal pianale del bancone.
Quello che ha stravolto tutti è stata l’ostinata riluttanza de “l’esotico” nel voler porre il proprio bagaglio sulla bilancia. Ad un invito molto fermo da parte della hostess a…”collocare il proprio collo sulla bilancia”, “l’esotico” è esploso: “ EH NO! ADESSO BASTA GIOCARE CON IL MIO COLLO!”
La hostess del “chek-in”, imperturbabile, ha insistito dicendo che non poteva pretendere che dovesse essere lei a prendere i -colli- di tutti i viaggiatori e metterli sulla bilancia.
Cosi “l’esotico” si è convinto (si fa per dire), con patetica rassegnazione, che “doveva” proprio strisciare la testa fino al… collo sulla bilancia prima del “tapis roulant”.
A quel punto l’ilarità è stata generale. A distanza di tanti anni…fuggiti via, giustifico pienamente chi, per tutta la sua esperta carriera di sarto, di collo ne aveva visto e misurato solo uno, come dargli torto? Eppure nella nostra lingua c’è collo, ma anche…collo!
Alberto Nacci
Fonte illustrazione: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Passagierabfertigung.jpg
15 venerdì Feb 2013
Posted Poesia
inE piove, anche oggi,
anche oggi fa freddo,
un velo di nubi nerastre,
il corpo tremante, le ossa dolenti e gelate.
E, porca miseria! uscire per spesa,
comprare un tozzo di pane,
un pacco di pasta, un frutto,
se bastano i soldi, la salsa;
e poi, solo,
sedere al misero desco,
accanto al camino ormai spento,
la pasta stracotta,
sapore di colla, di niente, di sale,
e parlare col gatto
ch’è sordo e non sente.
E diluvia, la strada è bagnata,
piena di ombrelli che vanno raminghi,
e sciarpe, visiere, cappotti,
il gatto che schizza di fuori,
spalanca la porta sbilenca,
e lì, sull’uscio di casa,
due stelle di miele,
le ciglia bagnate di perle,
un cappuccio grondante di pioggia.
due manine paffute protese
ad offrire un tesoro,
un’arancia, il colore dell’oro;
e un visetto di luna arrossata,
un filo di voce argentata,
e un sorriso, un bagliore di luce.
” Buon Natale, signore!”
“…Natale ? …”
” Domani è Natale ….. ”
Nelle mani avvizzite
un dono, un’arancia
dal profumo del sole,
e un’eco infantile di voce:
” Buon Natale, signore!”
Lis
Illustrazione tratta da Google immagini e da considerarsi di pubblico dominio. Verrà comunque immediatamente rimossa nel caso in cui ne venisse rivendicata la proprietà.
13 mercoledì Feb 2013
Posted Costume e Società, Personaggi, Religione
inLA STUCCHEVOLE ORGIA CONSUMISTICA DI SAN VALENTINO E’ ALLE PORTE… SI SALVI CHI PUO’!
AUGURO A TUTTI GLI INNAMORATI DI TROVARE IN QUEL GIORNO LA GIOIA NELL’INTIMO DEL CUORE.
UN PENSIERO, UN SORRISO, UN BACIO, UNA CAREZZA… NON COSTANO NULLA, MA SONO INFINITAMENTE PIU’ PREZIOSI DI TUTTA LA PACCOTTIGLIA CHE IL 14 DI FEBBRAIO SOMMERGERA’ IL PIANETA.
San Valentino è il protettore della città di Terni, la cui diocesi è retta dall’Arcivescovo Vincenzo Paglia, già parroco della basilica di Santa Maria in Trastevere.
E’ stato per molti anni assistente spirituale della Comunità di Sant’Egidio, fondata da Andrea Riccardi, storico della Chiesa e attuale ministro del governo Monti.
Papa Benedetto, recentemente, lo ha voluto alla guida del Pontificio Consiglio per la Famiglia, la qual cosa prelude all’imposizione della berretta cardinalizia.
…Qualcuno, sommessamente, ha addirittura sussurrato il suo nome tra i papabili… sarebbe bello se il mio parroco, insieme al quale per anni ho cantato il “Tu scendi dalle Stelle” in Santa Maria in Trastevere, durante la Messa di Mezzanotte, diventasse Papa.
Nella foto, l’Arcivescovo con la croce pettorale, adornata da cinque preziosi smeraldi, che fu di monsignor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, di cui monsignor Paglia è postulatore nella causa di beatificazione.
Federico Bernardini
Illustrazioni tratte da Google immagini.